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Considerazioni sulla disposizione che vieta la riorganizzazione del Partito fascista.
Esiste nell’Italia democratica nata dalla Resistenza l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge senza distinzione, tra l’altro, di opinioni politiche? Rispettando il divieto di non delinquere, ci si può riunire liberamente? Aderendo al metodo democratico, ci si può associare altrettanto liberamente in partiti? In altre parole, c’è libertà di pensiero? Da tali quesiti prende avvio l’analisi critica dell’Autore sulla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione repubblicana che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.
Dal dibattito in Costituente al processo a Julius Evola del 1951, dalla legge Scelba del 1952 alla legge Reale del 1975, per giungere alla legge Mancino del 1993 si dipana uno scrupoloso fil rouge politico e giudiziario vòlto all’istituzione di un monopolio ideologico con l’obiettivo di far assurgere a reato non solo i tentativi di replicare l’esperienza storica uscita sconfitta nel 1945, ma soprattutto il pensiero che ne costituì il sostrato dottrinale.
La repressione penale nell’utilizzare simboli, manifestazioni esteriori e parole d’ordine nostalgiche, unitamente al divieto “culturale” di esercitare l’indispensabile funzione del revisionismo storico (tranne quella dell’unica vulgata ammessa) sono le due direttrici indagate dall’autore che, con rigore giuridico ed attenzione al contesto sociale, ci accompagna in un lungo estenuante presente che stenta a divenire passato.